«Per buone cure serve tempo»
Le incontriamo entrambe a inizio estate a Zurigo, città in cui risiedono. Brigitte e Silvana, le chiameremo così, hanno lavorato per molti anni insieme in una residenza per anziani della città sulla Limmat. La prima è stata la responsabile dell’altra in un periodo in cui, come afferma Silvana, «lavorare era ancora bello e dava grande soddisfazione».
Tra le due c’è grande rispetto, persino affetto: «Brigitte ci trattava come persone competenti nella cura degli anziani. Ci ascoltava e ci dava la possibilità di rielaborare il nostro rapporto con i pazienti, di pensare al nostro modo di affrontarli e di superare le difficoltà che naturalmente nascono nel rapporto quotidiano con persone anziane e dementi. Potevi davvero sentirti parte di un progetto, le tue idee e riflessioni, anche se prive delle competenze o dell’esperienza delle colleghe diplomate, venivano prese in seria considerazione».
Brigitte, dopo sette anni come responsabile della casa di cura, essendo non diplomata, ha dovuto lasciare il ruolo a qualcun’altra: «Da quel momento sono iniziati i miei problemi, è iniziato un logoramento fisico e soprattutto mentale che mi ha portato a licenziarmi e ad abbandonare la professione. Il problema non è stata la sostituzione di Brigitte, ma l’emergere di nuovi criteri lavorativi lontani dai nostri bisogni e da quelli dei pazienti», afferma Silvana.
Il management
Silvana e Brigitte sono due persone critiche, nel senso più nobile del termine. Anni di lavoro, una forte passione e una spiccata intelligenza le hanno portate ad avere le idee chiare sulla propria professione.
A Brigitte, ad esempio, piace intervenire in prima persona nel processo di cura, anche ora che non ha più un ruolo di responsabilità: «Mi infastidisce eseguire cose che reputo sbagliate o non sono state sufficientemente ponderate in gruppo. Il mestiere di cura è complesso e necessità di competenze in molti campi, non si può improvvisare. Non può nemmeno rispondere a soli criteri economici».
Questo è però possibile soltanto quando si ha tempo e a un certo punto il tempo è sembrato mancare: «Il problema più grande che ho riscontrato è l’introduzione graduale di criteri gestionali che tenevano in considerazione soprattutto i fattori economici: sono state tagliate le ore di riunione, momenti fondamentali di rielaborazione, è aumentato l’impiego di personale temporaneo a discapito di quello stabile, hanno cominciato a quantificare i minuti necessari per il trattamento di una singola persona, persino a razionare l’utilizzo di pannolini e altro materiale».
Insomma, a detta sempre di Silvana, «il tempo aveva cominciato a trasformarsi in una bestia feroce che mi inseguiva per il corridoio senza darmi tregua e per questo io correvo sempre di più per non farmi mordere un polpaccio. Questo ha creato in me una progressiva demotivazione, un senso di forte isolamento e una difficoltà maggiore a rielaborare le emozioni». Tutto questo ha portato Silvana a lasciare il suo lavoro che pure tanto apprezzava.
Che fare?
Nel 2019, un’importante inchiesta condotta dal sindacato Unia tra le lavoratrici e i lavoratori del ramo, ha mostrato purtroppo che la storia di Silvana non è l’unica. Nel sondaggio, il 47% del personale curante dichiarava di voler abbandonare la professione. Una situazione, questa, che va a discapito degli utenti.
Per Silvana è chiaro: «Il personale nelle cure è la parte fondamentale del servizio dato. Se non si sente bene a risentirne sono soprattutto i pazienti». Anche per Brigitte: «Molte persone abbandonano perché si vergognano di lavorare senza poter mettere al centro i bisogni della persona malata».
Rendere la professione così respingente rischia, tra le altre cose, di creare seri problemi in futuro. Quello delle cure è un ramo in continua espansione che attira sempre più investimenti privati. A farla da padrone sono società che gestiscono molte strutture, ma non sembrano avere a cuore il servizio e nemmeno lo stato di salute fisico e mentale del personale.
Brigitte, da anni iscritta al sindacato, prima al Vpod oggi a Unia, spera in un contratto collettivo di lavoro «che porti migliorie salariali e regoli condizioni di lavoro e possibilità di formazione». Per ottenere questo, ovviamente, la sindacalizzazione del ramo, avviata qualche anno fa, deve proseguire spedita. L’ultimo congresso del sindacato Unia ha individuato proprio il ramo delle cure di lunga durata come priorità dei prossimi anni.
Secondo Enrico Borelli, che si occupa delle cure a livello nazionale, «la crisi pandemica ha evidenziato la centralità del ramo delle cure per il funzionamento della nostra società, ma anche il fatto che le politiche ad esso rivolte vanno ripensate radicalmente. In questo senso l’approvazione dell’iniziativa per cure infermieristiche forti del 28 novembre rappresenta un primo passo nella giusta direzione e ci offre la possibilità di aprire un grande dibattito nella società. Un dibattito necessario per valorizzare le condizioni di lavoro, favorire la qualità delle cure e rivedere i sistemi di finanziamento nell’interesse dell’insieme della popolazione. Perché ciascuno di noi necessita di buone cure e di una società che sia in grado di curare sé stessa».