«Abbiamo chiamato braccia…»
Il 2018 si chiude con due lutti importanti nel mondo del cinema: Yves Yersin, autore romando de Les petites fugues (1979), pietra miliare della cinematografia svizzera, e Alexander Seiler sono venuti a mancare entrambi lo scorso novembre. Le Giornate del cinema di Soletta hanno annunciato negli scorsi giorni la proiezione straordinaria di tre dei loro film. Accanto al celebre film di Yersin, saranno proiettate due pellicole poco conosciute di Seiler: il cortometraggio sperimentale In wechselndem Gefälle (1962), Palma d’oro a Cannes nel 1963, e Geysir und Goliath (2010), ultimo documentario del regista dedicato allo scultore Karl Geiser.
Siamo italiani
Non tutti hanno visto questo documentario, ma almeno una volta nella vita, anche senza saperlo, è impossibile non essersi imbattuti per una qualche ragione in una delle immagini della sequenza del film, in cui i corpi seminudi e allineati degli emigrati, attendono il loro turno per la visita obbligatoria presso la stazione di confine di Chiasso; oppure nell’immagine che ritrae i visi pieni d’espressività di una coppia italiana alle prese con un freddo impiegato della Svizzera tedesca; oppure ancora nelle immagini di alcuni interni di famiglie italiane che rivelano il quotidiano di soggetti fino ad allora considerati soltanto come forza lavoro a basso costo per l’industria elvetica. Dopo l’uscita del film, Alexander Seiler pubblica anche un libro omonimo con i materiali della sua ricerca, che diventa un’opera di indagine etnografica, oggi fonte storica preziosa per studiare l’emigrazione in Svizzera e il fenomeno degli stagionali. In quello stesso libro, nella prefazione, un autentico capolavoro letterario, Max Frisch conia la famosa frase che ritorna regolarmente in molti testi e contributi dedicati alla storia della migrazione in Svizzera: «Abbiamo chiamato braccia, sono arrivati esseri umani».
Identità ibride
Quasi quarant’anni dopo, Seiler riprende il filo del discorso sull’immigrazione in Svizzera e gira Vento di settembre (2002). Per farlo si reca in Salento, ad Acquarica del Capo, paese caratterizzato storicamente da un altissimo tasso migratorio verso la Confederazione, e racconta la storia di emigrati non più alle prese con indifferenza o xenofobia, ma con il problema del ritorno in patria a pensione raggiunta. I migranti, dopo decenni di lavoro e vita in Svizzera, non si riconoscono più nel paese di origine, hanno quasi cambiato pelle. Ma non solo: i figli hanno ormai una vita in Svizzera, sono diventati padri e madri a loro volta, e non vogliono seguire i genitori nel loro viaggio di ritorno. Ecco allora che la Svizzera, da paese inospitale, diviene oggetto di nostalgia, e i ricordi più cupi legati all’esperienza emigratoria lasciano spazio ad altri sentimenti.
Cinema e lavoro
Tra i film di Seiler, Die Früchte der Arbeit (1977) è sicuramente il più impegnativo: in quasi due ore e mezza il regista ricostruisce più di mezzo secolo di storia del movimento operaio svizzero. Nel suo racconto si intrecciano quattro linee narrative: la quotidianità di una famiglia operaia, la storia del movimento dei lavoratori in Svizzera a partire dallo scoppio della Prima guerra mondiale, le testimonianze di alcuni lavoratori ed ex militanti sindacali in pensione e, infine, la storia personale del regista stesso, rampollo di una famiglia agiata di Lucerna. Di particolare impatto sono le sequenze che ritraggono il protagonista principale del documentario al lavoro, un operaio dell’Asea Brown Boveri (Abb) impegnato nella fabbricazione di enormi turbine per l’industria idroelettrica. Anche le testimonianze di lavoratori in pensione, tra cui un anziano militante comunista, sono di particolare interesse. Questo documentario conferma il registro etnografico, il talento documentaristico e, soprattutto, la grande passione civile di un regista che rimpiangeremo sicuramente.