Il diritto di essere sé stessi
Componiamo il numero e, dopo i saluti e le brevi presentazioni, poniamo la prima domanda. Subito siamo travolti da un profluvio di parole in francese, pronunciate velocemente e senza pause. Non riusciamo a comprendere molto e allora chiediamo di rallentare un pochino il ritmo della parlata. All’altro capo del telefono c’è Mape, nome di fantasia, un giovane ragazzo nero arrivato da poco a Ginevra: «Deve scusarmi», dice, «ma sono abituato a parlare così, quasi in automatico, senza riflettere o fare pause, perché questo è ciò che ci è richiesto nelle procedure di asilo per apparire credibili».
Una causa di migliaia di persone in Svizzera e nel resto d’Europa
Mape è una persona forte, straordinariamente forte, ma subito ci chiediamo come si possa pretendere da una persona traumatizzata una tale condotta. È arrivato da poco a Ginevra dopo essere scappato da un paese africano che preferisce non nominare. Il padre pastore, il resto della famiglia e persino la comunità in cui viveva non hanno mai accettato la sua omosessualità. A scuola non sono mancate aggressioni. Di questo periodo non vuole tanto parlare, vorrebbe solo dimenticare tutto. Eppure, ora è diventato un attivista e si espone per la sua causa, che è la causa anche di migliaia di altre persone in Svizzera e nel resto d’Europa.
La fuga
Mape non poteva vivere così e allora ha deciso di fuggire grazie all’aiuto di una sorella, l’unica persona in famiglia che lo ha aiutato in quel periodo difficile. Dopo la fuga è finito in Tunisia, ma per lui la terribile realtà del paese natio si è trasformata in un incubo: «In Tunisia sono stato venduto come schiavo e mi sono ritrovato a lavorare in un allevamento di polli in condizioni indegne. In seguito, sono riuscito a fuggire da quella situazione e ho continuato a lavorare in condizioni differenti ma sempre senza molti diritti. In Tunisia, noi africani dalla pelle nera siamo considerati meno che niente. Di fare outing non se ne parlava proprio».
Supporto dell’associazione Asile Lgbtiq+
Mape decide allora di fuggire e, dopo aver trovato uno scafista «onesto», arriva in Italia nel febbraio del 2021, ma non deposita la domanda di asilo: «Non volevo restare in Italia per l’alto tasso di razzismo e di omofobia, non volevo nemmeno rimanere in un paese che non potrà garantirmi un futuro in termini lavorativi. Per questo sono partito per la Svizzera dopo un paio di mesi».
A Ginevra, Mape si sente sicuro e protetto, ma le autorità svizzere vorrebbero ora rimandarlo indietro. La sua battaglia è ancora aperta: «A Ginevra ho trovato tanti amici e il supporto dell’associazione Asile Lgbtiq+. Credo che chi ha vissuto esperienze come la mia debba essere libero di scegliere dove stare, ovvero nel luogo in cui si sente più sicuro e protetto».
La legge non basta
L’associazione Asile Lgbtiq+ è diventata un punto di riferimento importante per le persone in cerca di protezione. L’organizzazione, che appoggia attivamente la petizione femminista europea, organizza numerose attività di sostegno per le persone non eterosessuali in cerca di protezione e di inclusione sociale.
Tra le varie attività c’è anche un gruppo di scambio in cui le persone assistite dall’associazione possono scambiare esperienze e traumi. Fra le collaboratrici di questa realtà c’è anche Natalia Cuajy Sarrias, rifugiata nata e cresciuta in Colombia. Natalia è lesbica ma non è per questo che ha ottenuto l’asilo: «Ho ottenuto lo status di rifugiata soltanto perché ero portavoce di un’organizzazione politica di Bogotá.»
Violenza anche dove l'omosessualità non è perseguita
Natalia spiega: «La mia identità di genere non è stata presa in considerazione anche perché la Colombia non prevede leggi che danneggiano la nostra comunità. Semplicemente in Colombia non ci si sente protette come persone lesbiche o non eterosessuali. È importante far capire infatti alle autorità che la violenza nei nostri confronti esiste anche laddove l’omosessualità non è perseguita penalmente». Il patriarcato può tradursi in un impianto di legge, ma più spesso regola i rapporti sociali al di là della legge stessa.
Matrimonio forzato
Tra le molte cause di fuga, si trovano anche i matrimoni forzati e la violenza domestica. Samia ha vissuto tutte e due le esperienze. È cresciuta ad Addis Abeba, in Etiopia, in un contesto urbano più aperto rispetto al resto del paese, ma nonostante questo è stata costretta dal padre a sposare un uomo locale molto influente. Samia non si è data per vinta: «Sono stata costretta a sposare un uomo che aveva già quattro figli, prepotente e pericoloso. Io invece volevo continuare la scuola, volevo formarmi per diventare infermiera, emanciparmi rispetto al ruolo tradizionale della donna etiope. Per questo, grazie all’aiuto di mia zia, ho deciso di fuggire. L’ho fatto tramite visto turistico e in questo modo sono riuscita a evitare la terribile esperienza delle rotte migratorie più battute».
«Non sono stata creduta»
Una volta giunta in Svizzera, Samia è stata confrontata con procedure d’asilo stressanti, a volte umilianti: «Non mi si dava la possibilità di parlare inglese, nonostante io lo sappia, e inoltre ero costretta a ripetere sempre la mia storia. Non sono stata nemmeno creduta perché secondo chi ha preso in esame la mia richiesta l’Etiopia non era un contesto problematico».
Un permesso di soggiorno – ma per altri motivi
Samia però non si è data per vinta e ha presentato più volte ricorso. L’approvazione dello statuto di rifugiata è alla fine arrivato ma non per il matrimonio forzato. «Nel 2017 ho ottenuto il diritto di poter rimanere qui per un caso. Nel 2016 mi trovavo infatti nell’ambasciata etiope con altre persone per chiedere conto di alcune uccisioni che erano avvenute allora nel mio paese. In ambasciata si sono rifiutati di parlare con noi e allora noi abbiamo insistito. La polizia svizzera è venuta e ci ha richiesto i documenti. Questi stessi documenti sono poi stati consegnati a diplomatici etiopi. Questo ci ha messo in serio pericolo e per questo abbiamo ottenuto quello che volevamo».
I paesi intolleranti
Nel mondo, 69 paesi vietano le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso. Le pene variano da paese a paese. Si passa dalle terapie forzate per correggere «il difetto», alla detenzione, fino alle punizioni corporali.
In 11 paesi la punizione può persino portare alla pena di morte. Sembra incredibile, ma è così. È il caso della Nigeria, dello Yemen, della Mauritania, della Somalia, del Brunei, dell’Afghanistan, dell’Iran, dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Qatar e del Pakistan.
Solo una soluzione per proteggersi
Nelle regioni in cui è accettata soltanto la sessualità tra persone di differente sesso, le persone Lgbtiqa+ vivono costantemente nella paura. Spesso hanno solo una soluzione per proteggersi dai pregiudizi che subiscono a causa del loro orientamento sessuale o della loro identità di genere: fuggire e cercare rifugio in Europa, nell’America del Nord o in quella del Sud.
Esposti a pregiudizi omofobici e discriminazione
La discriminazione non termina però nei paesi d’origine. Le persone Lgbtiqa+ la sperimentano anche sulla strada dell’esilio e, spesso, anche nel paese stesso in cui cercano rifugio. Nei campi e nei cosiddetti centri di accoglienza, sono spesso esposti a pregiudizi omofobici e discriminazione. Ogni anno, ILGA World, associazione internazionale che si occupa dei diritti delle persone Lgbtiqa+, pubblica un rapporto sull’omofobia nelle diverse legislazioni mondiali.
Fin dalla sua prima edizione, nel 2006, il rapporto State-Sponsored Homophobia è stato una risorsa fondamentale per chi è interessato ad accedere alle informazioni fondamentali sulla legislazione che colpisce le persone sulla base del loro orientamento sessuale. La pubblicazione è accompagnata da una serie di mappe e grafici che illustrano dove esistono leggi di criminalizzazione, protezione e riconoscimento. La Svizzera, dopo l’introduzione del matrimonio egualitario, è tra i paesi più virtuosi in termini legislativi.