«Occorre cambiare modello di sviluppo»
Dopo l’affossamento della legge sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica da parte del Parlamento svizzero e, soprattutto, a seguito delle imponenti manifestazioni nazionali del 2 febbraio e dell’imminente sciopero internazionale del 15 marzo, è tempo di chiedersi quale sia la posizione dei sindacati in materia ambientale e climatica. Lo abbiamo domandato a Umberto Bandiera, che da anni segue per il sindacato Unia i lavori della Trade Unions for Energy Democracy, la rete sindacale internazionale che si occupa di temi relativi ai rapporti tra energia, ambiente, salute e lavoro.
Umberto Bandiera, Unia e l’Uss hanno sviluppato una strategia per incidere sulle politiche nazionali contro il cambiamento climatico?
I sindacati svizzeri sono dagli anni Ottanta in linea con il movimento antinucleare e hanno fino adesso sostenuto dall'esterno varie iniziative, tra cui l'importante voto sulla Strategia energetica 2050. Ma all'interno non si è mai veramente sviluppato un dibattito con i nostri membri e militanti e manca una linea politica sulle strategie settoriali e globali da sviluppare per combattere il cambiamento climatico. Siamo in ritardo rispetto ad altre organizzazioni sindacali europee.
Le politiche di riconversione dell’industria e dell’economia fanno temere per la perdita di posti di lavoro anche in Svizzera?
Per il momento vedo poca riconversione in giro e piuttosto molti licenziamenti legati a logiche di bilancio e di rendimento per gli azionisti. Le paure per i posti di lavoro esistono dappertutto e sono spesso alimentate da interessi economici e finanziari contro la riconversione industriale. I sindacati dovrebbero avere un ruolo chiave nell'aiutare i lavoratori a comprendere prima di tutto il bisogno di cambiare modello economico e lottare per dirigere le risorse verso nuove politiche di investimento.
Formazione, protezione sociale e forti investimenti: è questa la ricetta giusta per gestire la riconversione?
Bisogna iniziare ad accettare l'idea che l'attuale modello di sviluppo economico ha ormai fatto il suo tempo: il neoliberismo ha contribuito alla distruzione del pianeta e delle forme viventi come non era mai accaduto prima. Se continuiamo ad accettare una società fondata sul libero mercato, dove tutto si compra e si vende, allora andremo dritti verso la catastrofe ambientale, economica e umana. Le misure citate vanno bene se inserite in una società che ha già scelto di cambiare modello, altrimenti sono solo dei palliativi.
Quale è il dibattito sindacale a riguardo a livello europeo?
Le politiche d'austerità messe in opera dal 2008 hanno indebolito enormemente il movimento sindacale europeo, che ha oggi meno presa sui governi nazionali, salvo rare eccezioni. Sull'onda del cambiamento voluto da Corbyn, i sindacati inglesi, ad esempio, sono diventati molto attivi nel settore energetico e hanno elaborato un vero e proprio programma, il famoso One Million Climate Jobs che prevede un milione di impieghi governativi sicuri nel settore delle energie rinnovabili, per aumentare l'efficienza energetica, isolando gratuitamente abitazioni ed edifici pubblici, espandendo enormemente i trasporti pubblici a basso costo per spostare persone e merci su forme di mobilità più pulite e sviluppando le "competenze verdi" attraverso l'istruzione e la formazione. Mi sembra un eccellente punto di partenza, che è stato già seguito dai sindacati francesi con proposte molto simili.
Per la Confederazione europea dei sindacati (Ces) la «transizione giusta» verso uno sviluppo sostenibile non può che passare dalla partecipazione dei lavoratori. Cosa ne pensa?
Tutti siamo d'accordo con un' affermazione simile, ma penso che sia ancora uno slogan più che un vero programma sindacale. Non si può parlare di partecipazione dei lavoratori quando nei fatti da dieci anni in Europa essi sono stati esclusi da tutte le decisioni economiche prese e, nei momenti in cui han voluto far sentire la propria voce, hanno subito la repressione violenta delle forze dell'ordine. La transizione è "giusta" se vengono modificati anche i rapporti di forza nella società e i sindacati dovrebbero adoperarsi perché questo avvenga a breve termine. Il riscaldamento climatico è già in atto e i suoi effetti sono ben visibili a tutti.
Esistono esempi virtuosi in cui il movimento sindacale è riuscito a incidere fortemente nei processi decisionali aziendali legati alle politiche climatiche?
Fortunatamente si, ne cito uno: l'accordo sindacale fatto con ENEL in Italia. Questa multinazionale che ha un 25% di partecipazione pubblica ha deciso di produrre elettricità senza uso di fossili entro il 2050 (oggi sono al 50%). Per arrivarci ha concluso con i sindacati un accordo che prevede mobilità e formazione per i dipendenti, uno schema di prepensionamento, trasmissione dei saperi tra lavoratori giovani e anziani, partecipazione attiva dei delegati sindacali. Un altro esempio molto importante riguarda l'impegno di tanti sindacati in Europa e Nord America per cambiare le politiche d'investimento dei fondi pensione, mettendo una grande pressione sul mercato finanziario e sulle scelte future delle grandi multinazionali.
Esistono paesi o zone d’Europa in cui il cambiamento climatico ha già avuto conseguenze pesanti sull’economia?
Senza andare lontano, tutta la regione alpina europea è fortemente in pericolo, subendo in modo più drastico gli effetti del cambio climatico. Basta vedere quello che succede economicamente nei cantoni svizzeri di montagna durante la stagione invernale e estiva, con tutto il settore turistico in piena crisi da tempo e i salari rimasti quasi invariati per anni. Ma al di là dei proclami e delle promesse, sindacati, imprese e governo non hanno elaborato nessuna strategia comune.
In conclusione, lavoro e ambiente possono andare davvero d’accordo?
Rispondo con le stesse parole del collega canadese Brian Kohler che fu uno dei primi a parlare di transizione giusta: il problema non è scegliere lavoro o ambiente: o tutti e due o niente!