«Un’azione concreta di solidarietà»
«Di fronte all’emergenza profughi nei Balcani, vari membri e funzionari hanno chiesto alla direzione di Unia a Zurigo cosa si potesse fare», ricorda Per Johansson, membro del team comunicazione e campagne di Unia Zurigo. Poiché è apparso subito chiaro che il sindacato non poteva organizzare un intervento per conto suo, si è cercato un contatto con organizzazioni già presenti sul campo. Attraverso l’Aiuto svizzero per i rifugiati, si è arrivati alla ONG di ispirazione evangelica Remar, attiva nei campi di transito di Preševo e Šid, in Serbia. All’iniziativa di Unia Zurigo ha aderito subito anche Unia Ginevra. «Avevamo partecipato in autunno alle manifestazioni in difesa dei diritti dei migranti e da quella mobilitazione è nata la volontà di impegnarsi in un’azione concreta di solidarietà», nota Alessandro Pelizzari, segretario regionale di Unia Ginevra.
Zuppa e tè
Un primo gruppo di una decina di zurighesi si è recato a Preševo, sul confine meridionale della Serbia, a metà gennaio, per una decina di giorni. «Lì c’era un campo dove i profughi venivano registrati, prima di proseguire verso nord», spiega Per Johansson. Il compito affidato ai volontari di Unia era essenzialmente quello di distribuire zuppa e tè caldi e assicurarsi che il riscaldamento funzionasse. Un secondo gruppo di Unia, tra cui anche Johansson, è invece andato a fine di gennaio a Šid, al confine con la Croazia. «Il campo si trovava in un autogrill abbandonato, vicino all’autostrada. Lì ogni giorno arrivavano i bus da Preševo, carichi di profughi in attesa di proseguire verso la Croazia. Talvolta qualche migliaio di persone in un solo giorno». Anche a Šid, i volontari di Unia distribuivano tè e zuppa, 24 ore su 24, a turni.
Situazione drammatica
Il gruppo di Ginevra è invece andato a Šid a metà febbraio. In Serbia ha potuto vedere sul campo gli effetti delle decisioni prese nelle capitali europee. «Siamo arrivati quando la rotta dei Balcani era ancora aperta», racconta Alessandro Pelizzari. «Dopo qualche giorno, l’Austria ha limitato gli ingressi e convocato una conferenza dei paesi balcanici a Vienna. L’iniziativa austriaca di fatto ha chiuso la rotta». «Si è creata una situazione umanitaria drammatica», afferma Pelizzari. «Migliaia di profughi sono rimasti bloccati in campi non concepiti per lunghi soggiorni, carenti di tutto. Abbiamo cercato di portare il nostro aiuto, pasti caldi, anche nei campi gestiti dall’esercito serbo, a ridosso della frontiera, ma non ci hanno lasciati entrare».
Esperienza importante
Per Johansson non si trovava in Serbia quando la rotta dei Balcani è stata chiusa. L’esperienza nei campi l’ha comunque segnato a fondo. «Una cosa è seguire le vicende dei profughi sui media, un’altra è incontrarli di persona in Serbia, parlare con loro, sentire le loro storie. La testa continuava a lavorare, anche quando tornavamo nei nostri alloggi a Šid per riposare. Per me è stato di grande aiuto fare questa esperienza in gruppo, poter parlare con gli altri delle esperienze fatte». Ciononostante, il funzionario di Unia Zurigo non ha dubbi: «Se non lo avessi fatto, me ne sarei pentito. E come buona parte di quelli che sono andati in Serbia, lo rifarei. Trovo importante che Unia abbia reso possibile questa esperienza».
Responsabilità svizzera
Alessandro Pelizzari dal canto suo pensa già a tradurre in rivendicazioni concrete le suggestioni della missione in Serbia. «Stiamo lavorando a un appello che chiede alla Svizzera di assumere le sue responsabilità. La Svizzera dovrebbe aprire la frontiera e accogliere 50 000 profughi. E sabato parteciperemo alla manifestazione contro l’accordo di Dublino e per i diritti dei profughi e migranti».